Qualche anno fa mi chiedevo polemicamente: "Chi ha paura di Monet?". Cioè: chi
è così bloccato psicologicamente (e ideologicamente)
da rifiutare, in pittura, il richiamo della natura?
Era il tempo in cui le avanguardie storiche di fine secolo tentavano gli
ultimi soprassalti. Già allora un pittore come Tullio Ceccato,
abbarbicato a ridosso di Asolo, uno dei doni più alti di Dio, dipingeva
paesaggi freschi e rigogliosi, pieni di luci
e di colori. Avrebbe
dovuto piegarsi ai manierismi di moda?
Buttarsi magari sull'arte povera o concettuale, sulla
minimal o sulla neo-pop? Avrebbe dovuto, in altre parole,
soffocare il suo impulso di fronte alle bellezze
del Creato?
Purtroppo la storia
dell'arte di questo secolo ci mostra come gli artisti (ma
certo: anche i grandi artisti, da Picasso a Bacon, da Dali a
Pollock) abbiano violentato la natura: l'abbiano deformata,
scombinata, travisata, mortificata. E stata, la loro, una avventura
inebriante: quella di chi voleva sostituire alla
gran regola del cosmo l'orgoglio prometeico dell'uomo.
Tutto questo, fino al Sessantotto e oltre, è stato il
nerbo di tante conquiste dell'espressione umana.
Ma si è visto poi, sempre più, che le forzature fine
a se stesse, le ricerche linguistiche, i continui conati
di rinnovamento, le elucubrazioni dell'intelletto non potevano prescindere
dalla natura se non a costo di cadere o nel vuoto formalismo o nell'esasperazione dei contenuti.
Ogni volta che si sveglia, di
buon mattino, Tullio Ceccato apre la finestra al "suo" mondo.
Gli compare agli occhi il dolce profilo delle colline asolane, con
l'ordine sereno della campagna, l'armonia dei colori, il riflesso di
una bellezza che s'irradia tutto attorno. Che deve
fare? Egli non ha mai avuto dubbi. Il suo compito era ed è quello
di cogliere le schegge di questa bellezza naturale e di riportarle sulla
tela, cercando di conservare la genuinità dell'impatto,
l'istintività dell'emozione, il gusto dell'immersione
nell'erba, nei fiori, nella verzura. Da trent'anni Ceccato continua ad
essere, categoricamente, impressionista: d'un impressionismo
che è certo vicino a quello di Monet, cioè alla sua accezione
storica, ma che è continuamente ripreso e rinnovato dalla sensibilità
dell'artista.
Bisognerebbe fare, qualche
volta, la prova. Prendere un quadro di
Ceccato e osservare il paesaggio da
cui deriva. Confrontare cioè l'ispirazione e la
realizzazione. Penso che molti - almeno coloro che
ancor oggi ritengono superato il dipingere en plein air, cioè il
riportarsi della pittura al soggetto in se -
si ricrederebbero. La differenza è enorme.
L'artista, quando è tale, trae lo spunto
dalla natura e, senza violentarla, la riporta dolcemente a se stesso: cioè
la interpreta. Magari quel tal colore di verde o
di azzurro rimane circa lo stesso; ma
si percepisce - si deve percepire - l'animus dell'artista
che, nell'atto di amore, riconduce le cose alla
sua più profonda e autentica "verità
biologica".
Ceccato è un uomo privo di
infingimenti, privo di ipocrisie. Tra le cose cui non
rinuncia è la sincerità: ad ogni costo. Quindi
cerca di essere fedele al suo istinto, alla sua natura.
La pittura non fa che rispecchiare questo modo di
essere. Essa è nata, si può dire, dall'interno, fin
da ragazzo, come una modalità di espressione
del tutto consentanea. Nessuno sforzo, nessun
volontarismo. Del resto lo si capisce bene,
ammirando l'assoluta spontaneità della pennellata, la mancanza di pentimenti, la fluidità con cui forme e colori vengono in evidenza. In questo
è giusto definirlo pittore impressionista: seguace di Monet e di tutti
coloro (ma quanti sono nella storia della pittura?) che
si sono accostati alla natura con purezza
di cuore, tesi a trasfonderne le fragranti armonie.
Naturalmente la pittura è anche un
esercizio tecnico: tanto più arduo, talora, quanto più
appare estemporaneo. Questo è il segreto
degli Impressionisti.
Ceccato ha fatto la sua
gavetta: ha visto e rivisto, studiato e ristudiato; è
stato più volte all'estero; ha preso
contatti con altri pittori italiani e stranieri. Fin
da ragazzo ha avuto la fortuna di abitare in uno dei
luoghi non solo più suggestivi del mondo,
come Asolo, ma anche tra i più fecondi
culturalmente. A ridosso della rocca asolana, tra
le memorie rinascimentali di Caterina Cornaro, gli "Asolani"di
Pietro Bembo, l'ombra di Eleonora Duse, a poca
distanza da quello che era (e in parte
è ancora) il celebrato barco di Altivole, in un luogo
dove anche l'architettura moderna (Carlo Scarpa a San Vito)
ha segnato uno dei punti più alti, insomma in una
plaga dolcissima e insieme piena di echi
culturali,
in cui il mondo anglosassone
celebra continuamente i suoi riti raffinati, il giovane
Ceccato ha avuto un'iniziazione alla pittura
ideale. Oltretutto gli girava attorno l'aria
di Giorgione e di Tiziano, corroborata da quel certo
"clima" toscaneggiante che cosi curiosamente caratterizza
Asolo e i suoi dintorni.
L'occasione è stata
quando, nel 1969, egli ha preso contatto con un gruppo
di studenti americani che seguivano appunto ad Asolo, un corso di
pittura. L'insegnante - egli ricorda ancor oggi - era Jim Moon,
pittore
di New York. E stata la
scintilla. Da allora Ceccato ha intensificato i suoi rapporti
con gli ospiti stranieri più colti. L'anno dopo
ha incontrato un pittore inglese, Tom Walker, che
è diventato suo amico e che ha frequentato per circa tre
anni, fino al 1973. Andavano a dipingere assieme tra le
colline e i campi, inebriandosi degli scorci più
suggestivi e dei colori più vivaci. Poi sono venuti i viaggi:
dapprima in Austria (1978) e in particolare a Salisburgo, i
soggiorni prolungati in Olanda, Stati Uniti,
Canada, Francia, Svezia; e naturalmente i vari cicli di vedute e paesaggi.
Tra il 1982 e il 1985 i contatti si sono infittiti
con l'ambiente milanese, dove Ceccato ha conosciuto (e per lui è
stato un maestro) il pittore Dino Zampogna. Tutto ciò lo
ha arricchito culturalmente, gli è servito
con esperienza feconda. Ma il cuore continuava a
battere ad Asolo, nella sua terra.
Oggi moltissimi
quadri di Tullio Ceccato sono dispersi nel mondo:
li posseggono collezionisti di New York e di
Parigi, di Salisburgo e di Stoccolma, di Los Angeles e
di San Francisco, di Milano e di Venezia. Difficilmente
(impossibile) ripescarli. Lui, l'autore, cova sempre più
la nostalgia di taluni pezzi che ancora ricorda, e di cui
conserva puntigliosamente le fotografie. Ceccato ha
cinquantun'anni: è ancora giovane e dall'animo
giovanile. Da oltre vent'anni è un autentico
professionista della pittura: la sua casa è tutta
un atelier. Ma, con tutte le esperienze che s'è lasciato alle spalle,
continua a guardare avanti con entusiasmo. Dentro di lui c'è
una forma di genuinità (quasi direi di ingenuità) che gli fa da lievito:
gli è comunque necessaria per incantarsi ancora, giorno dopo giorno, di
fronte alle bellezze dalla natura. Guai se non
fosse cosi! Il vero artista, come diceva Nietzsche, non è un viaggiatore
che programma il suo viaggio, ma un viandante che resta
curioso del mondo e che ad ogni passo ne scopre le
meraviglie .
Ecco perché si ripetono, nello
studio asolano, i soggetti della campagna e della collina circostante, che
continuano ad essere al centro di ogni interesse
tematico di Ceccato: e, ripetendosi, cambiano sempre. Guardandomi attorno, osservando decine, se non centinaia di dipinti, non
ne ho trovato uno di simile. Magari lo
scorcio è lo stesso: quegli alberi, quelle case, quel
profilo lontano della rocca. L'animo che pervade la
pittura è sempre diverso: ora brioso e acceso, ora più dolce e
contemplativo; ora quasi dionisiaco, ora sottilmente
apollineo; ora tonale, ora timbrico; ora mosso e
quasi scarmigliato, ora avvolto d'una estatica
immobilità. Muta il colore, che da fragrante si fa in certi
momenti morbidissimo; muta l'impianto stesso, che trapassa dal
"cantante" melodico al giuoco eccitato dei
contrappunti; muta il ductus della pennellata, che mai cede
alla estemporanea freschezza. Insomma: ogni quadro è un mondo
a se, anzi diventa una sorta di identikit del suo autore. Questa -credo -
è la vera qualità del pittore impressionista, che trasmuta
la sua motilità psicologica e sentimentale nella natura.
Ma c'è anche un punto cui
ogni giudizio su Ceccato va riferito: la sua
appartenenza, fin nei precordi, alla cultura artistica veneta.
Quell'umore agreste, elegiaco, quasi virgiliano, che
è stato altre volte evidenziato, nasce dalla
profonda compenetrazione con la tradizione pittorica che
sovrasta non solo le colline asolane, ma
tutta la plaga veneta. Qui nell'aria si
respira la soavità atmosferica di Giorgione,
si captano le modulazioni cromatiche di Tiziano; e magari si arriva
ai chiarori celestiali di Tiepolo. E una cultura radicata
nel luogo: che continua ancor oggi, trovando
espressioni originali in artisti che da poco
ci hanno lasciato, come Carlo Dalla Zorza e Gigi Candiani, come Nino
Springolo e Nando Coletti.
La pittura veneta
antica, si sa, è basata essenzialmente sulle stesure lievi e
briose di un colore sinfonico che diventa per secoli indice di una
venezianità che si diffonde in tutta Europa, fino
a Rubens e a Renoir. Questo bisogno di
"cantare col colore" deriva essenzialmente
dalla dolcezza del luogo: si tratti della laguna opalescente o delle
gentili colline pedemontane. In fondo, Ceccato non fa
che riferirsi da una parte alla grande cultura del passato,
dall'altra alla natura stessa del luogo in cui vive.
Vale ribadire quel
che, altre volte, è stato detto: la pittura di Ceccato
non muta registro da oltre vent'anni.
C'è sempre ariosità, sempre freschezza. Le
betulle guizzano nello stormire delle fronde; i
lunghi prati cambiano le tinte secondo le ore della giornata; le semplici
casette si inseriscono, palladianamente, nei campi; le
colline formano profili ondulati di soave armonia. L'uomo è
figurativamente assente, ma la sua presenza aleggia tutto intorno: è un
uomo che ha capito, pur in tempi di inquinamento come i nostri, la
giusta regola di un accordo, di una simbiosi con
l'ambiente. Questo "tono" elegiaco si
ritrova anche nelle vedute delle città straniere o italiane,
negli scorci brillanti di Venezia, nei sia pur rari ritratti, nei fiori,
nelle bambole, nelle nature morte.
Tutto, anche il "color
locale", è ridotto alla gentile dimensione veneta. E la tecnica
svaria dall'olio all'acquerello al pastello. Semmai si nota
nel tempo (e il raffronto tra quadri recenti
e meno recenti lo rivela) una maggior franchezza
nell'orchestrazione sinfonica del colore. All'inizio l'artista
era come intimidito e giocava sui toni; poi, preso pieno possesso
delle sue qualità interpretative, ha finito
per adoperare l'intera tavolozza in una serie di
variazioni sciolte e sempre più timbricamente "sonore". In
fondo, la sua pittura è come se seguisse
l'andamento della musica di Vivaldi, cioè della classica musica veneta.